Indice generale

PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 1
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

Analisi della patologia dei ragazzi giapponesi hikikomori dal punto di vista occidentale

Ricerca a cura del Dott. Paolo Cardoso

Dott. Paolo CARDOSO; Dott.ssa Livia Cornelia BERNARDONI; Dott.ssa Giulia CASANOVI

Il Giappone: alcune considerazioni storiche e sociologiche

Prima di affrontare da un punto di vista psicologico la patologia dell'hikikomori occorre fare alcune riflessioni di natura storico-sociologica. Noi siamo abituati a studiare le patologie psicologiche del mondo occidentale nel loro contesto di sviluppo storico, nella loro relazione con la nascita e mutamento dei miti.

L'evoluzione della coscienza e dei valori collettivi sono imprescindibili dall'analisi delle malattie psicologiche.

Noi siamo soliti pensare che la cultura occidentale e quella giapponese sono molto distanti tra di loro. Le due evoluzioni sono state completamente diverse, cosi come lo è stata l'evoluzione delle coscienze storiche e morali dei due mondi e cosi come la struttura e i valori sociali.

In questa prospettiva storica noi pensiamo che ciò che è stato significativo non sia stato tanto il profondo cambiamento del periodo Meji, quanto quello avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.

Lì vi fu un inserimento, a nostro giudizio, anche molto forzato degli Stati Uniti, di valori morali e qualitativi assolutamente estranei al mondo culturale giapponese di allora, sino ad arrivare ad ipotizzare, come hanno fatto i prof. Mizuno e Rizzoli, che "tutta una generazione post-bellica, in una massiva identificazione con l'aggressore, si rivolse all'America."1

Vi fu l'importazione e forse l'imposizione di valori, tradizioni, mode tipiche del mondo occidentale. Molti giovani, anche per un normale rifiuto generazionale dei valori di quelle precedenti, vi si uniformarono, così come furono accettati dalla generazione che aveva fatto la guerra perché travolta dai sentimenti di vergogna per la sconfitta e forse con una voglia di girare pagina su una struttura civile e culturale troppo legata ad un "Dai Nippon" ormai scomparso.

Certo giocò anche molto la necessità di adottare stili di vita e di produzione per uniformarsi alle logiche ed alle leggi di un mercato economico nuovo e diversissimo, ma che offriva grandi possibilità di crescita al Giappone.

Il sogno di grandezza si poteva realizzare non con strumenti bellici, ma con la dedizione totale ed assoluta al progresso tecnologico ed al mercato.

La frustrazione della sconfitta poteva essere superata attraverso uno sviluppo economico che avrebbe portato il Giappone a divenire uno dei più importanti produttori di tecnologie avanzate del mondo.

Per far ciò occorrevano giovani qualificatissimi da un punto di vista della preparazione tecnologica. Ciò impose durissimi criteri di selezione, prima a scuola e poi nel mondo del lavoro.

Ne fu profondamente modificato il modello familiare. Il babbo divenne persona sempre più assente nella vita familiare perché assorbito totalmente dal lavoro. Basta pensare al tempo necessario per lo spostamento casa-lavoro-casa e le moltissime ore dedicate al lavoro per rendersi conto che il tempo trascorso con la famiglia diveniva davvero poco e in ogni caso, a quel punto, il genitore era stanco e poco disposto a dedicarsi ai problemi dei figli. Un altro fenomeno interessante da valutare è che in quel periodo aumentano i figli unici, novità rispetto a modelli familiari dove nelle famiglie vi erano sempre diversi figli. Questo infatti è il classico modello familiare presente nelle civiltà dove l'attività economica preminente é quella contadina.

Tutto ciò ha ingenerato un cambiamento profondo nel rapporto di amae tra la madre ed il figlio, spesso unico, che alla fine diviene patologico, per un eccesso d'attenzioni e d'aspettative.

I grandi sacrifici fatti dalle famiglie per dare ai figli la possibilità di accedere a scuole prestigiose e l'enorme sforzo richiesto ai ragazzi per dare buoni risultati scolastici ha finito per travolgere gli anelli più deboli.

Se si considera poi la storica diffidenza della cultura giapponese verso gli psichiatri e gli psicologi, dovuta forse al fatto che chi vi faceva ricorso era visto da tutti solo come un matto, si capisce perché il fenomeno, all'inizio, sia stato forse sottovalutato e poco studiato.

Ciò forse spiega lo strano approccio tenuto verso l'insorgere di problemi psicologici negli adolescenti, che scaturiranno poi in gravi patologie, almeno per noi occidentali, tutti gli sforzi erano posti nel cambiare i "comportamenti" e gli interventi erano mirati sulla famiglia per far sì che il ragazzo potesse essere reinserito al meglio nel processo di studio.

Una descrizione della patologia "Hikikomori"

Il termine "Hikikomori", sindrome che colpisce ormai molti adolescenti giapponesi, è stato frequentemente tradotto con quello di "social with-drawel" (ritiro sociale).

Molti dei giovani affetti da "Hikikomori" condividono alcuni aspetti patologici con chi soffre di "taijin-kyofu-sho". Quest'ultima patologia consiste fondamentalmente nel mostrare un sentimento di vergogna e forte timidezza in presenza degli altri.

Nell'aprile del 2003 il governo giapponese ha reso pubblico un primo studio su tale fenomeno. è stato definito "Hikikomori" chiunque si sia completamente ritirato dalla società per più di 6 mesi. In 12 mesi (durata della ricerca) i casi segnalati dai servizi psichiatrici sono stati 6151 (40% tra i 16 e i 25 anni - 21% tra i 25 e i 30 - 8% chiusi in una stanza per 10 anni o più).

Dal punto di vista comportamentale si possono evidenziare una serie di atteggiamenti che consistono prevalentemente nel negare qualsiasi tipo di contatto con la società; tra questi risalta il rifiuto della scuola. Decidere di non andare più a scuola sembra essere il passo principale per sprofondare nella patologia dell' "Hikikomori". In effetti sono in molti ad esibire un atteggiamento di avversione verso la scuola ("school refusal syndrom").

L'assenza si prolunga per settimane o per mesi interi, il contatto con gli altri studenti appare problematico in quanto fonte di enorme disagio attribuibile probabilmente a capacità sociali poco sviluppate.

Un altro tipico comportamento è quello di rinchiudersi nella propria camera. In seguito a ciò, spesso viene alterato il ritmo sonno-veglia e le attività vengono svolte durante la notte, mentre il giorno viene utilizzato per dormire. Gli unici interessi divengono i videogames, la televisione e l'utilizzo di internet ed in particolare le chat-lines.

Chi è affetto da "Hikikomori" si differenzia, per esempio, da chi soffre di "Otaku" (giovani che condividono una comune ossessione verso persone famose o oggetti) per il modo di approccio ai media.

Mentre l' "otaku" divora i media come una forma di sapere sul proprio oggetto d'ossessione e come un modo per diventare parte di un gruppo, l' "Hikikomori" usa invece i media come una forma di evasione dalla realtà. Da una parte la televisione permette loro di avere notizie del mondo senza essere osservati o controllati. Dall'altra i videogames rappresentano un passatempo che non implica nessun coinvolgimento personale o interazione umana. Sebbene molti "Hikikomori" usino internet per comunicare, anche in questo caso si tratta pur sempre di una forma di comunicazione che non comporta nessun contatto umano reale.

Si presuppone che l'uso diffuso e sproporzionato del computer e della televisione nel Giappone post-moderno abbia contribuito in parte all'aumento e allo stabilizzarsi di diverse patologie, come l' "Hikikomori" e il già citato fenomeno dell' "Otaku".

Ultimamente alle persone affette da "Hikikomori" vengono frequentemente associati episodi di violenza adolescenziale. Ma gli psichiatri giapponesi affermano invece che la maggior parte di questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti anti-sociali, ma non sono violenti.

Va sottolineato che la reazione della società giapponese è sicuramente influenzata dai media che propongono un'immagine di queste persone come rappresentanti del più inquieto ed enigmatico gruppo di devianti. Di conseguenza si produce un innalzamento della paura del fenomeno che causa nei genitori degli Hikikomori una grossa incertezza riguardo le modalità più idonee da attuare nell'interazione con i propri figli.

Analisi delle possibili cause del fenomeno "Hikikomori"

1) La società giapponese e il suo sistema d'educazione
È difficile definire con precisione le ragioni per le quali molti adolescenti soffrono di Hikikomori ma si può riprendere il discorso iniziale sull'analisi storica della società giapponese e dall'importanza che ancora oggigiorno in Giappone riveste l'educazione. Un tempo, la tradizionale famiglia giapponese, raffigurata come famiglia allargata, era fortemente inserita nel tessuto della comunità e assolveva oltre alle funzioni socio-economiche importanti attività religiose, essendo stata fonte d'educazione alla moralità e spiritualità.

La recente modificazione demografica, l'urbanizzazione e la trasformazione delle famiglie allargate in nuclei di case ha portato a dei cambiamenti nelle relazioni intra-familiari. Inoltre, è la classe media (New Middle Class), cioè persone che appartengono a singoli nuclei famigliari e che vivono nelle città, ad essere soggetta a sviluppare maggiori disagi di civilizzazione.

Paragonato alla famiglia tradizionale, il nucleo familiare attuale viene rappresentato come libero dal controllo di stato e comunitario ma il suo rafforzamento sociale risulta indebolito, e viene pertanto percepito come fragile e patologico soggetto a frequenti episodi di suicidio.

I valori tradizionali sono stati tuttavia accantonati anche dal processo di occidentalizzazione (High-tech culture). Quest'ultimo sembra basarsi principalmente sul comfort materialistico, sull'individualismo e su un'aspirazione auto-centrata: l'enfasi viene posta sul proprio successo e sulla realizzazione dei desideri personali in opposizione al sacrificio di sé stesso al fine di aumentare il benessere della società giapponese. è comunque presente una forte cultura giapponese del gruppo che dovrebbe garantire stabilità economica e sociale.

Per quanto concerne invece l'educazione, si può chiaramente individuare una concezione moderna del "bambino buono" e del "bambino cattivo" che rileva le sue origini dalla cultura tradizionale giapponese. Qui il bambino buono, chiamato "sunao" (obbediente, cooperativo e che dimostra un comportamento di compliance), era associato a delle caratteristiche severe. Esso veniva descritto come gradevole piuttosto che assertivo e aggressivo, più passivo e dipendente invece che autonomo e che partecipa ansiosamente alle attività collettive. Ancora oggi, la cooperazione sociale raffigurata dall'individuo "sunao" equivale ad un atto di affermazione del sé. Il particolare accrescimento psicologico che i giapponesi sperimentano durante le cooperazioni sociali è ben noto: essi si sentono particolarmente vivi solo all'interno di un gruppo e il loro Sé si sente fortemente appagato in compagnia di altri.

A partire dall'importanza psicologica, sociale ed economica del gruppo nella società giapponese, non sorprende che un bambino che non è "sunao" venga visto come bambino cattivo, che rifiuta l'arricchente vita del gruppo. Esso dunque viene considerato un fallito che non solo elude le aspettative della società ma anche quelle genitoriali.

Riassumendo sono due gli scopi fondamentali dell'educazione.

Il primo scopo è quello di produrre un bambino capace di eseguire i compiti (soprattutto scolastici) ed è correlato, dal punto di vista giapponese, al ruolo centrale delle qualità di perseveranza e persistenza.

Di conseguenza, ci si può aspettare che i bambini giapponesi che sono portati ad abbandonare più facilmente gli obiettivi o a fallire nel tentativo di realizzare i propri scopi, saranno etichettati come devianti da parte dei compagni e degli adulti.

Il secondo scopo consiste invece nella realizzazione di un bambino capace di contribuire a relazioni armoniose nel gruppo.

Diversi psicologi e sociologi giapponesi si sono pronunciati sui temi di devianza giovanile individuando come cause del disagio l'insufficiente indipendenza, la paura di rimanere indietro, la trasformazione da bambino buono a bambino cattivo e l'intensificata, spesso contorta, relazione fra madre e figlio provocata dall'assenza forzata del padre-lavoratore.

In effetti, il disagio degli adolescenti è fonte di particolare preoccupazione a livello nazionale, visto che essi rappresentano il futuro del paese.

Analizzeremo ora più attentamente le dinamiche intra-familiari e in particolare le aspettative genitoriali.

Le qualità che i genitori giapponesi spesso si aspettano dai propri figli sono innanzitutto l'autocontrollo delle emozioni, l'obbedienza e l'indipendenza. Tali abilità vengono considerate la base per poter realizzare il proprio successo.

I compiti fondamentali che i bambini devono assolvere consistono in primo luogo nella padronanza del regime di base della vita di tutti i giorni, cioè saper curare la propria salute, praticare la propria igiene e organizzare il proprio ambiente. In secondo luogo risulta indispensabile che il proprio figlio realizzi una eccellente carriera scolastica che gli permetta di ottenere uno status professionale e sociale elevato, soddisfacendo così l'orgoglio genitoriale.

Da ciò si deduce la presenza di una rilevante pressione psicologica che può portare allo sviluppo di dinamiche intra-familiari, controproducenti per la crescita emotiva e l'adeguato raggiungimento delle abilità cognitive e sociali del figlio.

Una madre giapponese viene poi incoraggiata, attraverso persistenti pressioni sociali (parenti, amici, vicini di casa, insegnanti) a seguire un' educazione che la identifichi come la prima e più significativa figura responsabile della "creazione" di un bambino giapponese cooperativo e compiacente.

L'eccessivo attaccamento alla madre può derivare da uno smisurato accrescimento da parte del bambino di un sentimento particolare di dipendenza, conosciuto in Giappone con il termine di "amae". Il concetto di "amae" viene considerato la chiave d'accesso per capire fino in fondo le relazioni interpersonali giapponesi. La parola "amae" è il sostantivo del verbo transitivo "amaeru" che significa "dipendere e presumere la benevolenza dell'altro".

Per esempio, il bambino che chiede con insistenza alla madre la preparazione di uno snack si aspetta di essere servito subito affidandosi alla benevolenza materna. La madre giapponese, anche se per ragionevoli motivi si mostrerà contraria, preparerà lo snack desiderato in modo da indulgere ai bisogni di "amae"del bambino. Cresciuti in un'atmosfera di "amae", i bambini giapponesi imparano la gioia e la sicurezza di dipendere dall'amore e dalla benevolenza altrui.

La "moderna madre" giapponese sembra incontrare tuttavia una serie di difficoltà per lo più legate all'assenza della figura educativa paterna, alla frequenza da parte del figlio di un sistema scolastico rigido e competitivo e ad un senso di solitudine marcato. Di conseguenza si assiste soventemente ad un atteggiamento di protezione che tende a regolare in maniera eccessiva la vita del proprio figlio spesso idealizzato e detentore di una serie di aspettative.

2) L'ambiente scolastico
Un altro aspetto fondamentale da considerare riguarda la forte competizione e le dinamiche ad essa collegata che si instaurano all'interno dell'ambiente scolastico.

Il bambino buono, attualmente in Giappone, è il bravo studente, perché chi ottiene buoni risultati scolastici viene volentieri indirizzato verso delle opportunità lavorative importanti. Comparato con altre nazioni il passaggio dalla scuola al lavoro appare altamente basato sulla meritocrazia.

Il presupposto per completare il curriculum scolastico con successo sembra correlato al precoce processo della socializzazione, ed è responsabilità della madre, che tenendo un atteggiamento indulgente rispetto ai bisogni dei propri figli, fornisce la base per un loro comportamento adeguato.

Come accennato sopra, in Giappone i genitori enfatizzano l'importanza dell'empatia, degli obblighi e di venire incontro alle aspettative altrui. I bambini giapponesi vengono pertanto scoraggiati ad esprimere i loro desideri ma dipendono invece dagli altri per soddisfare i propri bisogni.

Questo tipo di atteggiamento, radicato nella cultura giapponese, potrebbe essere messo in correlazione con la grande difficoltà che i giovani affetti da "Hikikomori" hanno nell'esprimere la loro vergogna, il loro senso d'inadeguatezza, e l'impossibilità di comunicare direttamente il proprio disagio.

Il bambino cattivo, al contrario, viene individuato nello studente insufficiente e/o incapace di raggiungere dei buoni risultati a scuola e che vede ridotta, di anno in anno, la propria possibilità di entrare in un'università prestigiosa. L'alto valore attribuito alla realizzazione degli obiettivi scolastici porta tanti genitori giapponesi, e soprattutto le madri, ad attivarsi in ogni modo per accrescere l'opportunità dei loro figli a intraprendere un percorso accademico eccellente. Quando il desiderio di un tale figlio - modello non si avvera, il ragazzo viene considerato cattivo e trova a sua volta numerosi, e qualche volta distruttivi, modi per resistere alle pressione dei genitori.

Storicamente parlando, il Giappone possiede un sistema di controllo scolastico altamente centralizzato e repressivo, atto a reprimere eventuali conflitti presenti. Tuttavia oggigiorno si sono verificate nelle scuole degli singoli episodi di violenza durante i quali i giovani sembrano rivestire un ruolo principale nell'attaccare in maniera aggressiva l'ordine prestabilito. Frequentemente il modo di reagire alle pressioni dell'ambiente scolastico consiste nello sviluppo di forti sentimenti anti-scolastici e nel rifiuto di partecipare alle attività scolastiche.

L'adattamento all'ambiente scolastico risulta pertanto difficoltoso e, di solito, i giovani preferiscono mettere in atto un forte controllo emotivo, smorzando così le emozioni negative che sorgono durante i conflitti interpersonali. Di conseguenza lo stress può portare, sia al non fare il proprio dovere, che ad un aumento costante della propria preoccupazione.

Si presume che la negazione del conflitto porti a un minor bisogno di esprimere la propria aggressività e che tale tendenza interiore possa essere associato al fenomeno degli "Hikikomori". Probabilmente questa tendenza è collegata alla precoce articolazione del senso di uguaglianza fra l'io e gli altri, a partire dallo sviluppo del senso di "essere un tutt'uno" nella specifica relazione fra madre e bambino.

I fenomeni del "drop-out" e della sindrome del "school refusal" sono stati evidenziati come i problemi attualmente più significativi. Questi studenti mancano dalla scuola per settimane o mesi, esprimono un forte disagio quando sono in compagnia di altri studenti e indicano la loro presenza come causa del proprio abbandono scolastico. Viene sostenuto che chi mette in atto comportamenti di rifiuto verso la scuola manchi spesso di capacità sociali adeguatamente sviluppate. Lo stress avvertito dello studente in questione può essere inoltre ricondotto alla sua incapacità di gareggiare adeguatamente, tenendo testa alla competizione.

Il contesto scolastico, come evidenziato, non è ideale per tutti, c'è chi è soggetto a subire delle prepotenze o chi "sta fuori" e non fa parte del gruppo, rivelandosi in ambedue casi come particolarmente vulnerabile. Il tema della prepotenza ("Ijime") come forma d'aggressione sociale sta innescando in Giappone una serie di preoccupazioni.

Nel passato la prepotenza consisteva in uno scontro uno contro uno nel quale il bambino fisicamente più dotato prendeva qualche oggetto o infliggeva un qualche comportamento umiliante al bambino debole.

Oggigiorno la nuova prepotenza si realizza a partire da uno studente che non è particolarmente forte dal punto di vista fisico e ottiene solo dei risultati accademici che stanno nella media. Vi sono varie forme di prepotenza, all'interno del momdo scolastico, oggi in Giappone.

Una di queste viene chiamata "shikato", il fenomeno per il quale un gruppo di studenti decide di ignorare e isolare un altro studente. In effetti, un quarto delle manifestazioni di prepotenza riguardano varie forme di esclusione e di isolamento. In Giappone bisogna essere conforme alle altre persone altrimenti si ha una sensazione di perdita, di vergogna e di disperazione. Tale società è basata sulla collettività, ci si sente solo completamente a d'agio o vivi quando ci si muove all'interno di un gruppo e le relazioni fra i vari membri risultano essenziali per la sopravvivenza sociale. Gli ostracismi caratteristici dello "shikato" e di altre forme di prepotenza rappresentano dunque una crudele forma di punizione. A partire da questa prospettiva si può capire, come gli isolamenti imposti da parte dei compagni, possono, in alcune circostanze, portare un bambino giapponese a suicidarsi.

Viene specificato da Maniwa che l'esclusione, come l'"alienazione" di un insider è l'atto con il quale un gruppo trasforma un suo membro in un alieno e lo etichetta perché lo definisce di natura essenzialmente diversa dagli altri membri del gruppo. Lo stimolo che porta all'esclusione spesso è estremamente banale, cioè riguarda una differenza minima, e il brutale trattamento messo in atto suggerisce che colui che lo compie "de-umanizza" la vittima. Proprio a causa di questa "de-umanizzazione" l'individuo isolato percepisce sé stesso come degradato o in precinto di perdersi. Ne consegue che l'esclusione dal gruppo equivale alla pena di morte.

Riassumendo, l'identità scolastica è così persuasiva, sia in termini d'accettazione dei compagni sia in termini d'avanzamento sociale, che quelli che si trovano fuori dal sistema non hanno nessun luogo dove vivere.

Anche il fenomeno dell'"Hikikomori" pone un quesito che nasce dalle generali problematiche del sistema educativo giapponese, che sembra proprio il suo catalizzatore maggiore. A partire dall'asilo gli insegnanti organizzano i bambini in piccoli gruppi ("kumi"). Ogni gruppo resterà insieme fino al raggiungimento del diploma. Tutte le attività come mangiare, studiare e giocare vengono svolti all'interno del proprio gruppo. Il sistema del "kumi" forma una forte base per un "noi" e un "loro". I bambini sviluppano un forte legame con il loro gruppo e non vogliono in nessun modo essere tagliati fuori da esso. Di solito chi soffre di "Hikikomori" non viene più accettato ed è frequentemente espulso dal gruppo ("kumi"), egli ha quindi scelto di ritirarsi o perché si sente rifiutato o perché si sente un fallito.

Questi ragazzi rappresentano delle difficoltà a socializzare con gli altri e a diventare un membro di uno degli in-group presenti sia nella scuola che all'interno dell'Accademia. La prepotenza e l'isolamento sono normalmente le ragioni maggiori per cui decidono di lasciare la scuola. Un sentimento di "individualità", in opposizione al sentimento del essere parte di un gruppo, può causare in loro la sensazione di essere differenti e per questo sbagliati. Credono inoltre di avere deluso la società o che la società abbia deluso loro. La ragione vera del loro assentarsi dalla scuola non è dettato dalla considerazione che la scuola non li piace, ma dal fatto che non trovano un posto per sé stessi all'interno di essa. Viene inoltre affermato che essi sono poco efficienti, sia sul piano accademico che su quello del sociale, e che si tratta spesso di adolescenti, anche se non esclusivamente, che hanno seguito un processo di maturazione verso l'essere adulto che si differenzia dai standard dalla cultura dominante.

Sadatsugu Kudo, che gestisce un centro di ricovero per giovani afflitti da "Hikikomori", fa notare che il problema non sono le persone ritenute dei "Hikikomori", ma più che altro il Giappone. Kudo commenta che la pressione per tutti di essere uguali nella società giapponese causa la percezione dell'esclusione per colui che si comporta diversamente. Viene ribadito da parte di molti esperti che i giovani sofferenti di "Hikikomori" che si orientano verso la violenza non sono un numero statisticamente significativo. Molti di questi giovani esibiscono semplicemente dei comportamenti anti-sociali, ma non sono violenti.

Un approccio terapeutico giapponese: la Terapia Morita

Una delle terapie più aderenti alla cultura giapponese è quella elaborata dal Prof. Morita Masatake, conosciuta come Terapia Morita.

Tale approccio terapeutico viene utilizzato per la cura delle nevrosi e si delinea nel modo seguente: "

  1. la selezione dei malati, essa elimina, infatti, gli isterici e gli psicopatici
  2. condizioni di trattamento non ospedaliere in cui il paziente vive nel tentativo di assimilarsi al suo psichiatra
  3. una presa di coscienza dei sintomi
  4. una terapia lavorativa

La terapia MORITA si articola in quattro fasi: in essa il principio più importante è l' "aru ga mama" ("vedere e sentire le cose come sono in realtà" o meglio "prendi la vita come viene") che rende attiva la capacità di guarigione spontanea (vis medicatrix naturae). In effetti un elemento fondamentale della terapia MORITA è un'attitudine di accettazione che fa si che il paziente non produca sintomi secondari nel tentativo di combattere i sintomi ossessivi primari. Lo stato di "aru ga mama", che è lo scopo finale della terapia MORITA, viene raggiunto con le seguenti quattro fasi:

  1. il malato viene tenuto a riposo a letto, totalmente isolato con la proibizione di parlare, leggere, scrivere, fumare e cantare. Lo scopo di questa fase, molto dura per i malati, è di provocare un'angoscia che evochi i fantasmi dell'ossessione. Essa dura da 4 a 7 giorni.
  2. una seconda fase, della durata di una o due settimane, durante la quale, permanendo l'isolamento e la proibizione di parlare, il malato potrà fare un lavoro leggero (come il giardinaggio) e dovrà leggere due volte al giorno dei passi di un classico (come il Kojiki dell'VIII° secolo). In questo periodo il malato dovrà tenere anche un diario che verrà letto dal medico. Vi sono tre ore di insegnamento al giorno, durante le quali il malato si limita ad ascoltare, senza interloquire, ciò che dice il medico.
  3. la terza fase è caratterizzata dall'imposizione al malato di lavori pesanti (taglio della legna, trasporto di pietre).
  4. la quarta fase (o terminale) dura una decina di giorni ed è indirizzata a reinserire il paziente nel suo mondo lavorativo, il lavoro è meno pesante mentre la lettura è limitata a delle opere assai semplici, che non abbiano alcun contenuto filosofico."

CONCLUSIONI

Noi occidentali abbiamo avuto la fortuna di avere un Kant che ha fissato un principio etico fondamentale ovvero "che l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo". Certo siamo ben lontani dal poter dire che ciò si applica sempre da noi, ma tutta la struttura scolastica giapponese e anche quella sociale hanno come finalità ultima produrre degli individui perfettamente in grado di mantenere ai più alti livelli la società economica, la qualità produttiva delle industrie giapponesi.

Per far ciò si accentua al massimo la selezione e l'inserimento perfetto all'interno del gruppo di lavoro a spese dell'individualismo.

Noi crediamo che in Giappone si è innescato un processo sociale, in nome del massimo sviluppo possibile i cui esiti non sono prevedibili.

Come dice Galimberti:" Lo scenario dell'imprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica, non è infatti imputabile, come nell'antichità, ad un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare, enormemente maggiore rispetto al nostro potere di prevedere e quindi di valutare e giudicare."

Galimberti ci avverte che l'ordine di grandezza di ciò che l'etica vorrebbe ordinare è così incommensurabile, che ogni teoria diviene inefficace.

Nello studiare l'hikikomori ci siamo accorti delle incolmabili difficoltà culturali ed etiche che ci dividono dalla civiltà giapponese e ci siamo domandati quali terapie suggerire.

Noi pensiamo che si dovrebbero sensibilizzare di più gli insegnanti verso queste problematiche per realizzare la massima prevenzione possibile.

Poi vi dovrebbe essere una massiccia presenza di psicologi nelle scuole, che attraverso incontri individuali, con tutti gli studenti, possano capire quali sono i ragazzi a rischio e sostenerli. Così come andrebbe fatta una grande opera di informazione sulle famiglie.

Si potrebbero pensare poi, per i ragazzi già colpiti dall' "Hikikomori" a gruppi di sostegno anche attraverso le chat-line, sul tipo di quelli realizzati per interventi con gli alcolisti, ma più di tutto interventi di psicoterapia individuale, dove uno psicoterapeuta segua un singola ragazzo per tentare un reinserimento progressivo dello stesso, nel mondo della realtà.

Termino con l'augurio che ogni soluzione che verrà adottata terrà conto di ciò Erich Fromm indica nel suo libro "Avere o essere", ovvero la necessità imprescindibile, per ogni civiltà, di porre sempre l'uomo, il singolo, con i propri interessi ed i suoi sogni, al centro dello sviluppo sociale.



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