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PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 3 speciale
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

SUL CONCETTO DI "ESSENZA DELLA CITTÀ"

Paolo Bagnoli *

Quando mi è stato assegnato il tema per questo Convegno mi sono chiesto in quale maniera trattare l'argomento. In termini generali, in maniera tecnica oppure cercando di proporre una riflessione sulle motivazioni culturali del problema ecologico. Mi sono permesso di affrontare il mio compito da questa ottica, accentrando l'attenzione sul luogo culturale primario del nostro riferimento ambientale, vale a dire la città.

La città, infatti, è "un modo di vivere". Questa affermazione di per sé ovvia si svela per la sua stessa ovvietà come modo di essere generale: la vita della città ripete il modo di vivere di un sistema più vasto, di un modello economico e politico che coinvolge il concetto medesimo di "mondo": nel nostro caso, di "mondo occidentale".

In ogni città si vive secondo il modo di vivere del "mondo". Si è in una città come si è nel "mondo". Si è vicini o lontani alla città come si è vicini o lontani al "mondo". Le più grandi differenze di cultura e razza si annullano nell'omologazione (per dirla con Pasolini) planetaria del modello di "mondo occidentale"; le città occidentali si adeguano al modo di essere generale e medio: sempre più cosmopolite e multirazziali.

L'espressione "modo di vivere", ovvia e tautologica, ora pare maggiormente chiara e evidente: la città come còsmo-poli ( Kosmos Polis)"città del mondo", "città che ha scritto la natura stessa del mondo di cui fa parte".

In uno scritto pubblicato nel '54, Das Ding (in Vortrage und Aufsatze), Martin Heidegger si interrogava sul terrore dell'uomo moderno di fronte a questo mondo occidentale capace ormai di mutare l'essenza stessa delle cose, rispetto al loro stato originario e primario: "Ogni distanza nel tempo e nello spazio si assottiglia. Dove prima l'uomo necessitava di settimane o mesi di viaggio, oggi vi giunge, con un qualche veicolo, nello spazio di una notte. Di ciò che l'uomo una volta veniva conoscenza solo dopo anni o anche mai, oggi ne è informato puntualmente ogni ora; in pochi minuti". L'uomo supera le più grandi distanze e riduce così tutto alla più piccola delle distanze.

Ma questo precipitoso rimuovere ogni distanza non porta ad alcuna vicinanza; poiché la vicinanza non consiste nella ridotta misura della distanza. Ciò che, in conformità all'esser distanti nella più breve delle distanze, ci è presente attraverso le immagini di un film, la voce della radio, può invero rimanerci distante. Ciò che in conformità all'esser distanti, è immensamente lontano, può esserci vicino. Una piccola distanza non è già vicinanza. Una grande distanza non è ancora lontananza.

Che cos'è allora, si chiedeva Heidegger, la "vicinanza"? Dopo fitti e serrati interrogativi Heidegger arrivava conclusivamente a domandarsi: "Come possiamo conoscere l'essenza? La vicinanza non si fa scoprire in modo immediato. In altre parole, noi prendiamo in esame ciò che è nella nostra vicinanza. Nella nostra vicinanza è ciò che siamo soliti chiamare cose".

Se il "modo di vivere" è un modo di essere del mondo occidentale, dove il senso medio prevalente è quello dell'esser vicino a, dell'esser disponibile per, dell'esser, come tale, una cosa, anche il modo di vita in una città riduce la città stessa a cosa. La città è ciò che ci è presente come cosa: è il luogo per eccellenza delle faccende, degli affari, degli uffici, intesi nel senso ampio del termine.

È difficile pensare oggi alla città come luogo di vita, senza che tale atto di pensiero non coinvolga un'idea di usare la città come cosa.

La città è soprattutto un raccogliersi di cose: negozi, bar, discoteche, macchine…. L'uomo vive la città in funzione di cose.

L'esser cosa di una città è, come abbiamo già precisato, non mai in riferimento a un modello di vita locale o regionale, ma in riferimento al Kosmos; a quell'ordine di tipo culturale ed economico che ci si è imposto.

Ma se per amore della speculazione, e forse anche di salvazione, dati i tempi, anelassimo alla ricerca di una via alternativa a un simile rapporto la diversità di simbiosi fra "mondo" e città che inerisce ineluttabilmente nell'esser cosa, bisognerebbe far ricorso ad un principio che sfugga al concetto stesso di cosa. Al tempo stesso questa ricerca dovrebbe essere alternativa sia all'omologazione che al livellamento spaziale e temporale che il Kosmos impone alla direzione del senso medio e generale della percezione del "mondo".

L'alternatività sta in un concetto altrettanto ovvio e tautologico: nella diversità. L'ovvio e il tautologico sono a torto dei concetti screditati al pari, ad esempio, dei così detti, "luoghi comuni" o dei "modi di dire". In realtà, al livello antropologico, rivestono un'insostituibile funzione: essi sono una sorta di "buchi neri" che risucchiano, attirano a sé il modo palese, pubblico, generale di riflettere intorno a un particolare modo di, a un certo senso di, ad una visione di, per cui il reale si rispecchia in loro così come la comprensione media del mondo ve lo riflette, senza averne mai una esperienza diretta e immediata.

Se la diversità è oggi un modo di essere confuso e indebolito dall'omologazione, è chiaro che essa, la diversità, andrà ricercata in qualche cosa che pur non essendo, hic et nunc, nella realtà dell'immediatamente presente abbia comunque una sua ragione di essere così e non viceversa: nel carattere.

Ma nulla è più ambiguo e sfuggente di un tale concetto: per esempio il carattere di un popolo, il carattere di una lingua.

Sappiamo che principi siffatti esistono perché attraverso nozioni generali come i "modi di dire" e i "luoghi comuni", tutti sono in grado di darne delle definizioni, ma in termini scientifici o storici esse crollano spesso a mò di castelli campati in aria. Tuttavia esistono delle tendenze generali che all'interno di un certo arco storico hanno continuato a manifestarsi in maniera più o meno continua.

Nel crearsi dell'Italia e delle sua lingua, nel mutarsi per riattualizzarsi del "modo di essere italiano", negli ultimi trent'anni la superficie della società italiana è stata dominata da un progressivo europeizzarsi e planetarizzarsi; al di sotto però di questo evento di superficie l'Italia è e continua ad essere quello che è sempre stata: un muoversi di spinte centrifughe, di lontana memoria, che si cozzano con gli impulsi unificatori di un'Italia forse fattasi tardi. In questo trentennio il senso medio e generale di percezione ha avvertito, come primato, l'adeguamento dell'Italia rispetto a paesi europei ritenuti, per tradizione, più evoluti, quali la Francia, l'Inghilterra e la Germania. Ora, non vorrei certo affermare che il carattere degli italiani vada ricercato esattamente nel "non essere italiani", è però che, fra tutte le costanti storione, quella di scostarsi localmente per tradizioni, dialetto, usi e costumi è un modo stabile di essere dall'Italia preromana fino, più o meno, ai nostri giorni.

È dunque nella diversità che storicamente si situa per eccellenza il carattere degli italiani, nell'esser diversi e lontani secondo la disposizione geografica.

Il carattere degli italiani si stabilisce allora come ciò che appartiene alla memoria collettiva di una comunità, più che di una società, ed opera in conseguenza di una normativa da essa elaborata nel corso del tempo in cui l'uomo vi si riconosce in modo eccellente. Attraverso la messa a punto di una norma l'uomo si mette in condizione di precomprendere il "mondo". La città è invece divenuta luogo aberrante rispetto alla tradizione; è l'essenza stessa del terrore dell'uomo moderno cui alludeva Heidegger. E' il tradimento medesimo della memoria collettiva e del carattere, del modo storico di essere, degli italiani; è l'annullamento dell'ovvietà e della tautologia che sono il riconoscersi dell'uomo nello spirito della tradizione che gli è propria. La città non indica ormai all'uomo il modo di vita che da sempre gli è esclusivo. La stessa città storica ha perso il significato di riconoscersi in modo eminente all 'interno di una varietà di vita unicamente sua; è bensì diventata città del "mondo" perché il "mondo" se ne è appropriato attraverso il turismo di massa.

Come si potrebbe affermare presentemente che per l 'uomo la precomprensione del "mondo" avviene attraverso gli occhi dell'idea di vita della sua città? Tutt'altro! E' attraverso gli occhi del "mondo" che ci si sente situati in questa o quella città; e così decade il senso di stupore e di meraviglia che è alla base del precomprendere, poiché esso avviene in virtù di un sapere proverbiale e topico.

La città oggi è la vicinanza del "mondo" e l'annullarsi della diversità e di ogni peculiarità di carattere; è la scomparsa di un "luogo comune" in cui ci si riconosceva in quanto diversi; è ora un mondo di uguali in quanto uguali, non in termini sociali (che sarebbe anche giusto!), ma uguali come lo sono le cose nella loro essenza: "usa e getta": l'atto di estraniare qualcosa del modo di essere che gli è proprio ed esclusivo.

Per questi motivi le città sono il terreno privilegiato dell'impegno ecologico, il banco di prova della nostra capacità di impostare culturalmente in maniera giusta il problema.

* Vicepresidente dell'Amministrazione Provinciale di Firenze

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