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PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 3 speciale
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

I COLORI DELLA CITTÀ

Alida Cresti *

Indubbiamente vi è una forte analogia tra il modo di concepire lo spazio abitativo e visione del mondo; così anche la città, la sua struttura, i suoi colori, sono rivelatori della cultura di chi l'ha costruita e la abita, e contemporaneamente, anche influiscono su di lui, in un meccanismo di reciproco influenzamento, giacché la città è metafora anche dell'uomo, e lo spazio "...condiziona i movimenti, i comportamenti, l'animo" (1).

L'immaginario urbano cambia nel corso dei secoli, ma sempre si articola secondo una logica di contrapposizione: primariamente è l'antitesi città-campagna (urbs-rus) che assume poi valenze non soltanto materiali, ma anche valori etici e morali di urbanità e rusticità, che tuttavia tendono ad invertirsi di segno, sino al rovesciamento attuale dei meriti di natura e cultura, identificati spesso tout-court i secondi con il vivere in città, luogo dell'artificio, ed i primi invece con un ritorno ad un vivere agreste, con il recupero di una supposta felice reintegrazione nei cicli naturali.

Nel Medioevo la contrapposizione si articola piuttosto tra città e castello, tra un mondo borghese e pacifico, ed un mondo aristocratico e guerriero (2). La città è luogo di aggregazione e di commerci, il suo vero centro è infatti la piazza del mercato. E se la città è rappresentazione e metafora dell'uomo, il suo corpo si articola tra la testa (il Municipio), il cuore, l'anima (la Cattedrale), mentre il mercato è il grande ventre, sensuale e digestivo, luogo dei piaceri dei sensi: colori, odori, sapori infatti stimolano la fantasia ed erotizzano l'immagine stessa della città, che, chiusa nella cinta muraria, soltanto interrotta dalle porte di accesso, e vigilata dalle torri, si assimila alla donna. Preda da conquistare, o da violare (3), come una donna, bella ed ingioiellata, la città è ornata di pietre e materiali preziosi, e splendente di colori e forme:

"Se vedeste il palazzo della città
interamente a volte e adornato di mosaici!
...
non spunta fiore fino a Pavia
che non sia rappresentato in oro e con arte" (4).

Così si elencano le "mirabilia" urbane, che rivelano, nell'icona idealizzata e simbolica della città, un immaginario utopico e fiabesco: giacché anche nelle fiabe la città è il luogo delle ricchezze accumulate e della potenza verso cui tendere.

Tuttavia, l'immaginario urbano è dotato (grazie anche alla intrinseca polisemia del simbolo che lo definisce e rappresenta) di una fondamentale ambiguità, perciò l'ideogramma "città" si rovescia di significato, ed accanto alla città splendente si rivela anche la città oscura: luogo della penuria e della morte (la città pestilenziale: come la Milano dei "Promessi Sposi"), o della violenza, della frode e della mostruosità, sia pure balenante ancora di una sinistra bellezza (la Parigi di V. Hugo che brulica sotto Notre Dame).

La "bella donna" può trasformarsi in megera orribile, dal cupo volto di Medea, oppure come nel Genesi, nella città "peccatrice", luogo di lussuria e dannazione. Così il tema biblico della "Gerusalemme Celeste" ripropone un'altra antitesi: città-paradiso e città-inferno: tra Sodoma e Gomorra (inferno dei sensi); tra Babilonia (inferno, questa, della mancanza del senso) e la Gerusalemme Celeste, appunto "città armoniosa" per eccellenza, luogo paradisiaco e beato, proiezione eterna del perduto Paradiso Terrestre. Nota giustamente Le Goff la sua "posizione escatologica eccezionale": "Non so se sia mai stato sottolineato a sufficienza il fatto che la tradizione giudaico-cristiana, partita da un concetto di Paradiso originale tutto naturale, tale da proporre all'umanità come prospettiva di felicità paradisiaca - intesa come ritorno alle origini, all'era d'oro cristiana - l'immagine di un giardino l'ha poi a poco a poco sostituita con quella di una città..." così "...il futuro eterno dell'umanità, la cornice in cui si collocano i suoi ultimi giorni felici è una città" (5).

Dunque, una città "futura", eterna, ci attende. Ma, intanto, quale è il suo presente? La moderna metropoli ne esibisce le promesse, oppure ne smentisce anche la speranza? E' insomma una città paradiso, o una città-inferno?

La simbolica della città è legata al dialogo tra i valori di intimità degli spazi interiori (6), e di socializzazione degli spazi aperti, in una dialettica interno-esterno, io-noi, che ne costituisce il carattere definitorio. Gli spazi della città possono essere aperti o chiusi, delimitati o meno, ma tra la città antica e la città moderna esistono grandi differenze, certamente anche rivelatrici di un diverso modo di concepire il vissuto sociale.

In passato, la città era "chiusa". La cinta muraria infatti chiudeva la città, riportandola ad una topologia difensiva, di contrapposizione ed isolamento dall'esterno. All'interno, invece, vi era una grande fluidità, talvolta anche promiscuità, ma certamente in una grande possibilità di scambio e di interrelazione tra gli abitanti. Nota ancora Le Goff che l'ideale di urbanizzazione si legava ad una visione della "città, quindi, come società di uguaglianza e assistenza reciproca", dove il passaggio dalla campagna alla città diventava percorso educativo: chi vuole abbandonare "la vita rustica per passare in città e diventare cittadino-abitante della città (cives), deve abbandonare i costumi rustici e la dimora di campagna per andare ad abitare in città ed assumere i costumi civili, l'urbanità e la socievolezza" (7).

Oggi i valori si sono invertiti: la città è completamente aperta all'esterno, ed anzi in uno scambio ininterrotto con la periferia attraverso strade, metropolitane, ferrovie, ecc.. Le chiusure si sono spostate ai confini di stato, che tuttavia anch'essi diventano sempre più "permeabili", tendendo ad una dimensione "planetaria". Le case, invece, le abitazioni della città diventano sempre più chiuse, assemblate le une accanto alle altre, ma incomunicanti: una topologia geometrica che, nel termine di "unità abitativa", si rivela in tutta la sua irriducibile chiusura, che esclude, o comunque rende più difficile la vita di socializzazione tra "vicini". La tipologia spaziale che sembra prevalere nella città è il "container". Containers le case, tutte "razionalmente" sfruttabili al massimo della loro capienza; containers le macchine o le vetture di trasporto pubblico; containers infine gli uffici, i luoghi di lavoro. E l'uomo, merce vivente, si trasborda dall'uno all'altro, in un frenetico e cieco via-vai.

Così, ad una vita di scambio, socializzata in modo fluido dell'antica città, dove la vita si svolgeva in un flusso ininterrotto dalla casa alla strada (ed alle piazze, importanti centri di aggregazione, come anche la Chiesa ed il Municipio), anche prevedendo talvolta una aperta conflittualità tra i vari ceti, succede oggi una vita tendenzialmente limitata a piccoli gruppi, o addirittura isolata, chiusa in se stessa, secondo un ideale narcisistico ed onnipotente, pretendendosi sempre più autonoma ed autosufficiente. Ed è veramente sorprendente, del resto, come in un'epoca come la nostra, in cui l'uomo singolo è assolutamente dipendente da tutta una serie di servizi centralizzati (basti pensare alla luce, acqua, gas, strade, cibi, ecc.) tuttavia possa coltivare la beata illusione di una "autosufficienza"!

In realtà, ben diceva Fromm, quando indicava nella società tecnologica una Grande Madre, cullante, regressiva e possessiva, che induce bisogni continui (materiali), e ne provoca un parziale soddisfacimento, eludendo e nascondendo i veri bisogni dell'uomo: bisogno di amore e di libertà. Così, sempre secondo Fromm, egli sarebbe ridotto al rango di un "eterno lattante" che strepita e strilla in una incessante ricerca di piacere, secondo una dinamica narcisistica che impedisce poi di vedere la sostanziale dipendenza e fragilità del singolo (8).

Certo, il narcisismo è un valore (negativo) dominante la nostra epoca, e Christofer Lasch anni fa enumerava i tratti significativi appunto della "Cultura del narcisismo" (9), che si evidenzia in un individualismo esasperato, in una mancanza di interesse per il futuro, ed in una mancanza di ricordi, giacché il narcisista non "capitalizza" memorie di significativi ed affettuosi legami passati, che siano poi sicura risorsa per la maturità e la vecchiaia. Il nuovo "cittadino del mondo" è contraddistinto da una sostanziale miseria interiore, seppure negata (fobicamente?) da una esteriore opulenza.

Riflessi della sua formale bellezza, nelle grandi metropoli, allora, i fallici palazzi di vetro si rispecchiano gli uni con gli altri, così come già si rispecchiò Narciso all'ingannevole fonte, avvalorando appunto significati (e divenendo essi stessi significanti) di un narcisismo esasperato, che nega tuttavia anche la possibilità di uno scambio di sguardi (sono gli occhi, anch'essi specchi, ma viventi!), in quanto i vetri spesso sono unidirezionali: non hanno duplicità di visione, permettono invece a chi sta dentro di vedere senza essere visto. Sono specchi "ciechi", sguardi senza pupille, impermeabili alla vita. Ma lungi dal proteggere i valori di intimità del luogo chiuso, oggi la casa, tradizionalmente "luogo della propria libertà" (10), è poi costantemente invasa e violentata dal mondo esterno: il rumore del traffico cittadino, la radio, la TV (la propria, ma anche quella dei vicini, che "trapana" muri e pavimenti). Una sorta di contrappasso tecnologico: alla mancanza di rapporti sociali, comunicativi con il mondo esterno, si costituisce una violenta irruzione di rumori, che rendono talvolta infernale il sognato paradiso dell'intimo spazio del proprio "privato" (secondo una dicitura di gran moda).

Così, se la città, priva di porte e di mura, ha perduto quel senso di inaccessibilità e di protezione, e diventa aperta, e quindi vulnerabile, contemporaneamente la vita che vi si svolge è singolarmente chiusa, impermeabile. I divieti si sono spostati dall'esterno al suo interno, con la contraddizione di creare uno spazio contemporaneamente aperto e coatto, di una apparente libertà che nasconde invece un sostanziale carattere autoritario. La sua estrema povertà semiologica (tutto è uniforme, anonimo, privo di particolari contrassegni stilistici, o variazioni formali) è soltanto apparentemente smentita da un osceno proliferare di cartelloni pubblicitari, che si impongono aggressivamente con il gigantismo delle immagini, e con l’ossessività di un messaggio ripetuto all'infinito.

Ripetitività, serialità, attrazione-repulsione sono allora le categorie della città di oggi, che è essenzialmente repulsiva, irta com'è di divieti, sensi obbligatori e dove l'uomo non è più il protagonista, ma quasi un ingranaggio, un robot obbediente e passivo.

Lo spazio della città, nota Paola Coppola Pignatelli, non è più una guaina, "un materiale prezioso che mi avvolge e mi protegge", secondo una modalità frommiana dell'essere, quanto piuttosto si caratterizza come "spazio dell'avere, cioè lo spazio della conquista e del dominio..." (11).

Quanto alla forma, certo la città di oggi è costruita essenzialmente in verticale, con forme erettili, falliche, maschili quindi, mentre sono quasi del tutto sparite le forme rotondeggianti, a cupola, risonanti una topologia isomorfa al ventre femminile, al seno. Si rivela così una prevalenza di razionalità, un bisogno di geometrie angolari, una dominanza, infine, dei valori intellettivi piuttosto che affettivi.

Le forme circolari, infatti, riecheggiano la perfezione del rotondo, simbolo del cielo, ed anche la sua valenza protettiva e fecondante, come proiezione grafica e simbolica dell'utero materno. Le antiche città conservano nella pianta circolare qualcosa del Giardino originario (Hortus conclusus, Paradeisos, luogo di delizie e felicità), laddove, come indica Guènon, la Gerusalemme Celeste ha piano quadrato (12). Si ripropone così la contrapposizione natura-cultura, materia-spirito, che si esprimono in un simbolismo vegetale, l'uno, minerale, l'altro, fluido scorrere del tempo, ed eternità contemplata,

Anche mi colpisce l'attenzione predominante oggi verso le forme piuttosto che verso il colore, e se il colore è linguaggio degli affetti, la sua essenziale mancanza nella città moderna è indubbio segno di un impoverimento emozionale del tessuto urbano.

L'esperienza del colore, e tutta la letteratura in proposito ce lo conferma (13), è esperienza emotiva, e, se il mondo delle forme rivela un controllo intellettuale ("formale", appunto), il suo "colorarsi" indica la capacità di lasciarsi andare all'esperienza seduttiva di un fenomeno mutevole e trascolorante, uno "stato d'animo", appunto, un piacere sensuale e materico, anche, ed infatti le personalità rigide, o depresse, sono più sensibili ai valori di forma piuttosto che a quelli cromatici.

Anche architettonicamente, allora, ogni epoca ha avuto un suo colore "affettivo" dominante, che è divenuto una sorta di referente mentale nel ricordo e nell'immaginazione.

Così, dopo il rosso del cotto che anticamente colorava prevalentemente e caratterizzava la Roma repubblicana con valori "terrestri", materici, popolari, il bianco dei marmi dell'età imperiale invece denotava una tendenza uranica, trascendente, una tensione verso l'affermarsi di una potenza sacrale, essendo infatti il bianco, con l'oro, epifania dello spirito e del sacro (14).

Ancora il rosso del cotto, tuttavia, rivestiva le città italiane dei Comuni, rivelandosi "colore romano e italico attraverso la dominante rosso-purpurea dello sfondo storico-cromatico del Mediterraneo, dal rosso cosmetico egiziano al color porpora puniceo, nella triade dei colori materiali (bianco, rosso e nero), fissa un rapporto corrente di valori terreni e corporei" (15). Bianco-rosso e nero infatti costituiscono una triade cromatica primaria, un "codice" che si evidenzia nell'arte primitiva, nell'antropologia (che lo rivela nei rituali iniziatici), nel mito, nella fiaba, ed altrove, ad indicare una sorta di "traslazione" nel mondo dell'immaginario e del simbolico dei colori materici del corpo umano (sangue, latte e sperma, feci) (16).

Oggi, invece, il colore tipico delle grandi città è certamente il grigio, e non soltanto nei materiali (asfalto, metalli, cemento): il grigio della città moderna è veramente un grigio psicologico "mentale". Tutto del resto si ingrigisce e sbiadisce, sotto la polvere grassa e nerastra che tende a ricoprire tutto uniformemente, tanto che questo smog dette nome, alcuni anni fa, proprio ad una particolare tonalità di grigio "il grigio fumo di Londra".

In una città, che pure invecchia rapidamente, una sorta di metallizzazione, di plastificazione ostinata, le dona un "colore eterno", un grigio uniforme appunto, grigio reale e grigio percettivo, ma anche grigio della memoria, che indica una perdita dei valori del tempo, di quella "patina" appunto, dovuta al naturale invecchiamento delle cose e dei materiali, che è sostituita da un improvviso e rapido deterioramento (17); come se la morte, così accanitamente negata e scotomizzata dall'uomo contemporaneo, tanto narcisista ed onnipotente da non poterla accettare come evento personale, si fosse trasferita da lui alle cose. La dimensione narcisistica, appunto, della nostra società si evidenzia infatti anche in questo rifiuto all'invecchiamento ed alla morte, sebbene, poi, in una significativa, apparente, contraddizione si riveli una sostanziale "necrofilia" proprio nel consumismo esasperato di mode che "uccidono" cose ed eventi (e persone!).

E proprio nella sensazione prevalente di grigio uniforme si rivela la valenza mortifera della nostra civiltà, giacché davvero il colore è vita e bellezza, e la sua negazione è la perdita della speranza, come diceva Pasolini nella sua "morte incolore" (18). Infatti, niente più della morte è privo di colori. Così, la mancanza di colori può indicare angoscia, noia, certo depressione, che si evidenzia nella "stinta metropoli" di cui parlava ancora Pasolini:

"tra casupole di latta
e scoli, innalzavano pareti
recenti e ormai scrostate, contro un fondo
di stinta metropoli" (19).

La città, quindi, si è verticalizzata ed ingrigita, e pur non volendo qui entrare in una troppo facile ed abusata attribuzione di categorie di valori in opposizione tra loro: razionalità e sentimento, forma e colore, alla fondamentale antinomia maschile/femminile, tuttavia è certo che la città si è impoverita emozionalmente, avendo rinunciato a più ricche modulazioni, formali e cromatiche.

Nota giustamente Prusatin, che la scomparsa del colore dalla città moderna si accompagna con una inversione dei vissuti percettivi cromatici: la città è grigiastra di giorno, e fortemente colorata di notte nella "policromia delle insegne pulsanti e degli arredi effimeri" (20).

Ma i "colori della notte" sono artificiali, urlanti, irrealistici, usati come "input" ipnotico, euforizzante, evidenzianti l'isterico vitalismo della vita notturna metropolitana: mentre al diffuso grigiore diurno esterno corrispondono arredi interni spesso fortemente colorati, ma in modo contrastante, non armonizzati secondo valori cromatici, come se alla deprivazione percettiva e depressogena del fuori corrispondesse una sorte di compensazione maniacale.

Dicevamo che il grigio è mancanza di colore, in realtà esso, che è la somma di tutti i colori, ne è anche la negazione, annullandoli tutti in sé, quasi in una sorta di fagocitazione, di "cannibalismo cromatico", e questo ci rimanda ad una valenza fortemente orale della nostra civiltà, del suo consumismo esasperato, che è anche pulsione mortifera, poiché ingurgita tutto o lo espelle poi in una massa di detriti e di rifiuti che ci stanno soffocando, e rendendo le nostre città una sorta di grande discarica a ciclo aperto, evidenziandone così tuttavia anche l'altra polarità, quella anale.

E l'analità della nostra civiltà si riconosce ancora una volta proprio dal predominio dei colori scuri, "sporchi". Accanto al grigio e al nero, l'altro colore proprio al nostro agglomerato urbano è il marrone, in tutte le sue gamme. Il bruno, colore delle feci, è l'insegna della massa dei maleodoranti e pestiferi rifiuti urbani ed industriali, veri materiali escrementizi che ci avvelenano e ci uccidono. Il "grande ventre" della città non è più opulento di cibi e colori, sensazioni ed umori, ma è un labirinto digestivo che, della duplice valenza simbolica legata appunto al processo digestivo di distruzione, ma anche di trasformazione alchemica in nuove sostanze, sembra privilegiare soltanto il senso mortifero di una "grande abbuffata".

Fromm indicava proprio nella preferenza dei colori scuri (se non si trattava di imposizione di mode o costumi sociali) l'evidenziarsi di un carattere appunto anale, distruttivo, "necrofìlo", cioè amante della morte (21), e certo, che la nostra società e le nostre città abbiano assunto sempre più valenze necrofile, credo sia indubitabile. Non sarebbe certo più possibile, parlando delle metropoli contemporanee, citare il verso di Baudelaire:

"Sono bella, o mortale, come un sogno di pietra" (22). In realtà, spesso davvero essa è una, “formicolante città, città piena di sogni, ove lo spettro, anche di giorno attanaglia il passante..." (23).

Ma già Metropolis (ricordate?) anticipava la percezione di quanto il "sogno di pietra" potesse trasformarsi in incubo. Un incubo monocromatico, infatti, il famoso film di Fritz Lang, come tale è talvolta anche la città in cui abitiamo, dove l'azzurro del ciclo si scolorisce sempre più, velato dai fumi e dai gas, avvicinandosi anch'esso al grigio; colore ormai più di "indifferente nostalgia" che di lirica poesia.

E' infatti il grigio, colore nebbioso, livido, indizio di un ambiente artificiale;

è il colore dell'uomo "faber", tecnologico, in contrapposizione al vivace laboratorio cromatico della Natura. E' un colore privo di slanci; difficile è trovarvi valenze positive: la mediocrità non è forse "grigia"? E "grigia" è la vita senza affetti e passioni. E' il colore della depressione: nota infatti il Benedetti (24), nel suo trattato di Neuropsicologia, che il depresso vede il mondo in grigio, e non soltanto metaforicamente. Colore dell'uniformità, non contiene in sé vibrazione o aspirazione alcuna. Dice il Luescher, a proposito di questo colore: "Il grigio...non è né colorato...è neutro, né soggetto, né oggetto, né interiore, né esteriore, né tensione, né rilassamento. Il grigio non è territorio occupato, ma è un confine, un confine come terra di nessuno, come zona smilitarizzata, una regione di separazione fra zone contrastanti" (25). Nel suo test dei colori poi, egli indica nella persona che preferisce il grigio ad altri colori, una persona che "vuole recintarsi da ogni cosa, vuole restare non coinvolto e non avere responsabilità..." (26), nascondendo anche in ciò un'ansia rappresentata dall'essere rifiutati.

Ma il grigio non ottiene davvero buona stampa, e Kandinskij, da parte sua, sostiene: "II grigio è dunque l'immobilità, che è l'inconsolabile. Quanto più il grigio si fa scuro, tanto più si accentuano 1'inconsolabilità e l'oppressione soffocante" (27).

Così, nella ormai "stinta", grigiastra metropoli, il colore solo talvolta si esprime come segnale-choc nei cartelli dei divieti o dei sensi obbligatori, o nei semafori, tuttavia accentuando ed enfatizzando unilateralmente il simbolismo proprio al colore in modo quasi caricaturale, perdendone tutta la ricca gamma significante.

Il rosso, allora, perduta tutta la sua passionale polisemia, che lo apparenta al fuoco e al sole, nelle sue valenze uraniche, o al sangue, come alle terre rosse, alle ocre (che sono il sangue materico della terra), nelle sue valenze invece ctonie - il rosso, dicevo, significante di Eros e di Thanatos, si umilia in un mortificante, banale, imperativo di stop, di divieto. Ed il blu, colore dello spirito, delle immensità trascendenti del cielo e del mare; "principio maschile, aspro e spirituale", come lo interpreta il pittore Franz Marc (28); colore di ogni nostalgia, e di ogni lontananza, si svilisce e si costringe in un super-egoico messaggio di "senso obbligato".

Quanto al verde, talvolta presente realmente (e non soltanto nei semafori), tuttavia sembra aver perso le infinite varianti armoniche che intessono la sinfonia naturale dei boschi, delle colline, dei prati. Il verde delle città appare pressoché tutto uguale, forse la ristretta gamma arborea usata è privilegiata dagli amministratori per motivi forse economici, forse per equivoci estetici, o per necessità climatiche, ma certo abitualmente è priva di fiori o frutti, né vi si percepisce il variare delle stagioni, se non quelle estreme: estate e inverno. Così come non si avvertono i "profumati colori" della primavera, nemmeno, in autunno, si incendiano le foglie di alcuni alberi, creando quei contrappunti cromatici che danno brividi felici ad una stagione del resto anche così malinconica.

In città il verde appare uniforme, monocromatico, sembra piuttosto aver estremizzato il suo tono di calma, di equilibrio, di pace, assumendo valenze di neutralità, di monotonia, fino all'estremo di una placida apatia. Ma questo verde, significante di vita, linfa della Natura, colore della rinascita e dei cicli vitali, ormai sempre più rarefatto, distrutto e sporcato, malato (e non soltanto nelle città), e tuttavia sempre più agognato, sognato, come oasi rappacificante dopo la tetra violenza del nostro vivere, diventa un elemento ideologico, rivendicativo, "politico", volendo indicare la ricerca e la valorizzazione appunto di valori naturali, affettivi, ma anche una tensione riparativa ed idealizzante verso una nuova "imago" materna (la Grande Madre Natura) e, forse anche, nelle sue estremizzazioni, una spinta ad un illusorio ed utopico "nirvana", ma certo rivelando complessivamente, valenze più "biofile" (cioè amanti della vita) di quanti propugnano e ricercano, acriticamente, un progresso tecnologico inarrestabile.

Mi sembra allora di poter dire ora che, se il colore è affettività, è vita, è partecipazione emotiva, empatica, alle cose ed agli eventi, il grigiore (fisico e mentale) delle nostre grandi città è indizio di una latente depressione di chi le abita. Infatti, se è vero che il depresso ama il grigio, e lo sceglie per il suo mondo, è anche vero che il grigio troppo esibito e subito induce a pensieri di sfiducia e di apatia anche in chi depresso non è. Lo squallore e la bruttezza che incalzano e stravolgono le nostre città, insieme ad altre cause, quali un sostanziale senso di sfiducia, una perdita di progettualità personale e sociale, generano così un circuito di "grigia indifferenza", tanto avvertita oggi, sì da far proporre invece il colore proprio come suggestione di riscossa, politica e ideologica. Dopo i Verdi, l'italianissimo "raggruppamento arcobaleno" sembra usare il colore, non so quanto consapevolmente, come "esca affettiva". Come se si volesse indicare, da una parte la fine del grigio (la grigia pioggia cui succede l'iridato arcobaleno), quindi della tristezza, dell'indifferenza, della depressione, e dall'altro stimolare l'interesse, l'affettività, mobilitare il consenso e l'adesione del cittadino in una sorta di euforia cromatica.

Che dire, infine? Non vale certo consigliare di "colorare" tout-court la città e la nostra vita, poiché il desiderio di colore, come di bellezza, scaturisce direttamente dal nostro intimo. Inoltre, i problemi della città, e del nostro vivere socializzato, richiedono analisi ed interventi interdisciplinari; ma certo, una maggiore attenzione alla dimensione dell'"essere" più che dell'"avere", una maggiore affettività rivolta al mondo che ci circonda, potrebbe "disinquinare" almeno un po' questo nostro universo mentale e psichico, oltreché urbano, così ingrigito, attraverso anche la valorizzazione (secondo già quanto indicava Goethe) dell'"azione sensibile e morale del colore" (29).

BIBLIOGRAFIA

1) P. Coppola Pignatelli, Spazio e immaginari,. Officina Ed., Roma 1982, pag. 30.

2) J. Le Goff, L'immaginario medioevale, Laterza, Bari 1988.

3) ibidem.

4) ibidem, pag. 14, cit. de 'La Prise d'Orange" del ciclo di Gugliemo d'Orange.

5) ibidem, pag. 38.

6) G. Bachelard, La poétique de l'espace, PUF, Paris 1957.

7) J. Le Goff, op. cit., pag. 54.

8) E. Fromm, Avere o Essere?, Mondadori, Milano 1977.

9) Ch. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981.

10) P. Coppola Pignatelli, op. cit., pag. 29.

11) ibidem, pag. 53 e 63.

12) G. Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario. Dedalo, Bari 1972, pag. 107 - e R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975.

13) v. P.Coppola Pignatelli, op. cit. - R.Arnheim, Arte e percezione visiva -Feltrinelli, Milano 1977 - v. anche: A. Cresti - Nell'immaginario cromatico. Ferri, Milano 1987.

14) M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1983 (v. anche Durand, op. cit. e Cresti, op. cit.).

15) ibidem, pag. 25.

16) A.Cresti, op. cit..

17) M. Brusatin, op. cit..

18) P. P. Pasolini, Le Ceneri di Gramsci, in: Le Poesie, Garzanti. Milano 1975.

19) P. P. Pasolini, Poesie inedite, in: Le Poesie, op. cit..

20) M. Brusatin, op. cit., pag. 116.

21) E. Fromm, Anatomia della distruttività umana. Astrolabio, Milano 1978.

22) C. Baudelaire, I fiori del male, Feltrinelli Milano, 1964: "La Bellezza", pag. 37.

23) ibidem: I sette Vecchi, A Victor Hugo, pag. 165.

24) C. Benedetti, Neuropsicologia, Feltrinelli, Milano 1976.

25) M. Luescher, Il test dei colori. Astrolabio, Roma 1976, pag. 49.

26) ibidem..

27) V. Kandisckij, Lo spirituale nell'arte, De Donato, Bari 1968, pag. 116.

28) Lettera di F. Marc, Dicembre 1910, cit. in: Il Verri, Bologna 1982, pag. 77.

29) J. W. Goethe, La teoria dei colori. II Saggiatore, Milano 1979.

* International Foundation E. Fromm, Firenze

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